Palazzo Strozzi, Firenze. Il poderoso e massiccio emblema dell’architettura del Rinascimento toscano si fa prezioso scrigno e spartano contenitore dell’opera di una delle Signore dell’arte contemporanea più d’avanguardia, Marina Abramović. Superata la coda interminabile alla biglietteria (consigliato l’acquisto online) e la trafila del guardaroba, il visitatore viene subito accolto da un bel pugno in faccia. L’ingresso della mostra ha una porta dagli stipiti umani: due nudi, vivi e piuttosto vicini, tra i quali passare per accedere. Si ripercorrono subito le prime performance di Marina con lo storico compagno Ulay, fino alla separazione personale e professionale sulla Grande Muraglia Cinese. La mostra segue però vari fili, disposti non sempre in ordine lineare ma anzi invitati a ingarbugliarsi. C’è Ulay sì, ma c’è anche la morte, ci sono rituali tibetani, c’è il sesso, c’è la crudezza del corpo e della carne, c’è la sofferenza e non meno la provocazione, c’è l’autolesionismo unito all’amore e alla comprensione per l’essere umano, c’è materia e c’è ascesi, c’è l’urlo disperato contrapposto al silenzio più assordante.
La mostra è una retrospettiva sul lavoro svolto dagli anni Sessanta agli anni Duemila ma è anche una mostra in costante divenire e non potrebbe essere altrimenti con un’artista che ha da sempre scelto la performance come mezzo d’espressione. Ed è la performance a essere al centro della riflessione del visitatore perché costringe inevitabilmente a tirar fuori i concetti di tempo, di irripetibilità, di autenticità dell’opera. Marina Abramović non c’è, altri riproducono le sue più grandi performance, inevitabilmente in modo diverso, dato che diversa è la personalità di chi esegue ma anche il momento in cui si esegue. A prescindere o meno che si strizzi l’occhio alla re-performance o che la si critichi (ballerini e attori, assicurano, sono stati debitamente formati), la forza della personalità dell’Abramović si sente eccome. Nella voce, nei video, ma soprattutto nell’idea e solo infine nella rappresentazione visiva che si concretizza come ultimo frutto di un percorso complesso reso granitico da straordinaria sensibilità ma ancor più da una razionalità tagliante e da pratiche meditative ferree. D’altro canto già il titolo, The Cleaner, come spiegato dal curatore Arturo Galansino, fa riferimento a togliere il superfluo e tenere solo ciò che serve. Tagliandolo via senza esitazione, pare.
Il visitatore è invitato a calarsi nelle performance e, nonostante si avverta un po’ di spettacolarizzazione e artificiosità, tuttavia non sempre si riesce a reggere il peso del messaggio. L’arte dell’Abramović arriva senza fronzoli, dritto alla mente ma soprattutto alla sensibilità di ciascuno.
Dispiace un po’ che una mostra così, che chiaramente può anche non piacere, sia stata commentata più per polemiche che esulano dall’arte che per l’arte stessa. La mostra scuote e lo fa in modo violento, a volte straziante e a volte estremamente intimo ma innegabilmente scuote. Si avverte una sorta di vertigine uscendo da lì ed è arduo dare un giudizio a caldo. Sicuramente consigliata, Marina Abramović squarcia senza alcuna esitazione tutto ciò che sembra superfluo. E questo destabilizza eccome.
The Cleaner, Palazzo Strozzi, Firenze – 21 settembre 2018/20 gennaio 2019
Biglietto intero 12,00 euro, ridotto 9,50.