In questi mesi di pandemia in cui tutti oscilliamo vertiginosamente tra estremi di inquieta agitazione e momenti di noiosa apatia , alternando fiumi di numeri da inseguire a paludi di rassegnazione, ieri un’espressione che non sentivo da una vita mi ha solleticato l’orecchio e mi ha fatto sorridere il timpano.
Sarà che quando parli poco con altri esseri umani fai più attenzione a ogni singola sfumatura o sarà che siamo tutti più soli e quindi più sensibili, fatto sta che poche parole messe lì – per di più in modo casuale, formale e senza pensarci- mi sono proprio piaciute.

Ero al supermercato in contemplazione dei millemilioni di tipi di yogurt quando un tizio cinquantenne al telefono mi si piazza accanto a condividere con me la visione del banco frigo. Non volevo origliare (c’ero prima io eh!) ma ho ascoltato tutta la noiosissima telefonata. Il tizio distinto, vestito blu e capelli con visibile segno del pettine-rastrello, è un medico. Parla con un paziente, che lo interrompe di continuo, ma lui mantiene la calma: francamente la conversazione è pesantuccia, al punto che mi distraggo e cerco di sbrigarmi a scegliere finalmente il mio bottino e scappare via. Sono piuttosto concentrata sulla “mission” fino a quando non arriva il momento dei saluti e il cinquantenne tira fuori due parole che mi pietrificano, catapultandomi in un attimo a metà strada tra un film di Tornatore e la saggezza dei nonni. Lo guardo perplessa, cercando almeno vent’anni in più sul suo volto ma niente, quindi sgattaiolo tra i corridoi e rifletto.
Lo sconosciuto, distinto e tollerante, saluta il paziente con “tante cose”: “tante cose” ha detto!

Intendeva il vecchio “tante cose belle” e quest’espressione riesumata dal passato e venuta fuori da un tizio di cinquantaequalcosa anni mi ha sorpresa e affascinata. Chissà che voleva dirgli, forse una pronta guarigione, ma non credo, era più generico. Forse il medico lo dice a tutti, è il suo saluto formale tipico. “Tante cose” ovvero “le auguro tante cose (belle)”: sarei felice che le accadessero, che lei fosse felice, che quello che vuole e che è bello per lei beh, si realizzi. In fondo, gli àuguri erano i sacerdoti romani che interpretavano il volere degli dei. Quindi se ti auguro tante cose belle, il mio è un presagio, una speranza e un desiderio che porta bene.

Mi è sempre piaciuta l’espressione “buona giornata” e quando ho scoperto che a Parigi è quasi maleducazione non dirla in continuazione, al vicino di casa che ti tiene la porta aperta, alla fine della conversazione in banca, in qualsiasi occasione di congedo, l’ho adottata nel mio cerimoniale quotidiano e me la sono tenuta anche in Italia. In fondo è un altro modo di dire “le auguro una bella giornata piena di tante cose (belle)”. Touché.
Un’altra espressione italianissima, intensa come solo la nostra lingua può fare e semplice nella sua formulazione pulita è “stammi bene”. Non ci avevo mai pensato finché tempo fa non me l’hanno fatto notare. Stammi bene è “cerca di stare bene a me”, non “con me” né “per me”. Non nel senso che devi adattarti, stare bene, a me. Non è una ricerca di benessere egoistico. Stammi bene è…devi stare bene, per te ma anche per me che sto bene se tu stai bene. È in qualche modo la forma attiva del “ti voglio bene”, cioè voglio il tuo bene.

Ci sono poi le forme stereotipate, c’è l’evergreen “buongiorno” che, per quanto abbia lo stesso significato della buona giornata, non riesce a scrollarsi di dosso la formalità del contesto.Il “buongiorno” è il mattino, è la speranza del nuovo giorno, ma ormai è talmente abusato che nessuno, me compresa, ci fa caso.
Tuttavia, l’abbottonato e sempre adatto a ogni occasione “buongiorno” nella mia lista di simpatia registra senz’altro punti in più rispetto alla signorina “buonasera”, frivola, formale e totalmente fredda.
Infine c’è lui, il più ruffiano, il più ambiguo, il più borderline “salve” che, tra formale e informale, segna l’età di passaggio nell’età adulta, quel momento in cui sei ancora indeciso se dare del lei o del tu e soprattutto cerchi di affermare autorevolezza pur offendendoti a morte ogni volta che ti chiamano “signora” (pensando puntualmente “ora ti tiro i capelli e vediamo chi è la signora”!)
Non mi va di parlare degli “Addii”, definitivi, risoluti, senza speranza. Non è il giusto momento storico. Colmo il buco con un’opera di Boccioni dedicata, che tanto l’arte ci sta sempre bene.

Infine, non può mancare la pizza margherita dei saluti, il made in Italy per eccellenza esportato nel mondo assieme a improbabili spaghetti con le polpette, pronunciato o con voce e accento tipici del Padrino oppure con la frivolezza delle bionde americane con le gonne svolazzanti: ciao. Assoluto, semplice, identitario, la parola più elementare e amichevole della nostra complicatissima lingua. E dire che si crede venga dalla pronuncia veneta di “sclavus”, saluto superformale e reverenziale – immaginiamo inchino accennato- di “servo (suo)”.

Insomma, tutta sta carrellata per colpa del medico sconosciuto. O della pandemia. O del fatto che abbiamo tutti, ora più che mai, bisogno di una parola gentile che ci porti bene. Perché è vero che ognuno ha un suo particolare tipo di “bene” ma forse in questo momento abbiamo tutti lo stesso.
Quindi… tante cose belle a tutti voi!
ps. alla fine, ovviamente, sono uscita dal supermercato senza yogurt!