Gibellina, quella del terremoto del Belìce. Burri quello dei Sacchi. Il Cretto, quello famoso in tutto il mondo, per Gibellina e per Burri.
15 gennaio 1968, Gibellina viene rasa al suolo (ne ho scritto qui). Morirono più di un migliaio di persone nel terremoto del Belice. Poco dopo, in realtà in tempi record, venne ricostruita in un nuovo luogo e grazie al Sindaco, Ludovico Corrao, ricordato come un eroe ancora oggi da tutti, gli abitanti ebbero presto nuove case, nuove strade, nuove speranze, un nuovo futuro.

Li possiamo immaginare questi sopravvissuti, così spaventati per aver perso tutti i loro beni ma grati di avere ancora l’unico fondamentale, mentre vanno a trapiantarlo, senza alcuna certezza che attecchirà, in un posto nuovo salvando il salvabile dal vecchio. Corrao per la ricostruzione della nuova Gibellina fece appello ad artisti e intellettuali, che non si tirarono indietro e lasciarono in questo angolino di Sicilia distante dal mare ma baciato dal sole, opere monumentali, traccia evidente del loro passaggio.
Burri no, non volle. Volle sì rispondere all’appello di Corrao ma non nella città nuova, contribuendo non alla ricostruzione ma al consolidamento della memoria, altrettanto fondamentale.

Burri era stato prima ufficiale medico in guerra, poi prigioniero in Texas, era tornato in Italia e si era dedicato a quella che sarebbe stata la sua firma, la sua ricerca nonché la sua vita, ovvero l’arte materica. Famosissimi i sacchi di juta, usati e usurati, con delle storie da raccontare nascoste nelle trame stesse. Brandelli di vita vissuta, quella dei sacchi, cuciti assieme. Poco dopo erano arrivati altri materiali e altre tecniche, come la combustione della plastica, ferite aperte altamente evocative che l’artista fu sempre restio a spiegare. Gli anni Settanta infine erano stati quelli dei Cretti, delle ricerche sulle fessurazioni, sulle crepe, sull’aridità assetata dell’argilla. Temi e domande esistenziali, materiali poveri, arte informale nel senso proprio di negazione della forma, quella bella, perfetta, che tutti nei secoli e millenni precedenti si era sforzati di raggiungere. La materia è quella che parla. Perfino davanti alle critiche, Burri rispondeva col silenzio.




Corrao chiama, Burri risponde e arriva in Sicilia. “Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”.
Nasce così una tra le più importanti opere di Land Art di tutti i tempi, 80.000 mq di cemento bianco in mezzo alla campagna. I lavori iniziano nel 1985, si fermano pochi anni dopo, riprendono fino alla conclusione nel 2015, quando Burri non c’era già più. Nessun colore, nessun ornamento, nessun suono. Un vuoto denso, stracolmo di memoria bloccata nel cemento bianco.



Un’opera aperta, fruibile giorno e notte, di cui si percorrono le ferite, le rughe del tempo, con fatica sia fisica, non sembra ma il dislivello c’è (e si sente, tutto) che morale: si percorrono le antiche strade di Gibellina, si cammina tra le macerie di quelle case che facevano Gibellina. Non si ricorda soltanto, si vive l’antica Gibellina, ci si immerge e la si percorre. Desolante e solenne allo stesso tempo. Solo una casa è rimasta in piedi, quella del farmacista, baluardo di quello che l’uomo può imporre, costruendo, nella natura ma anche di quello che la natura, scuotendo la terra, può fare all’uomo e a ciò che ha vanamente tentato di costruire per sempre.
E poi c’è il tempo. Quello passato, quello della distruzione, quello della Storia in generale e delle storie in particolare degli abitanti. C’è il senso della memoria collettiva e quello dei ricordi individuali. Burri non partecipa alla ricostruzione ma ricorda, lascia un segno profondo (enorme) sul territorio: si ricostruisce ma non si cancella il passato, si compatta, si congela nel cemento, si percorre, si vive. Per ricostruire.
Da visitare nelle vicinanze: Tenute Orestiadi, ne ho scritto qui.
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