Gibellina è silenzio. Un insieme taciturno di enormi piazze e insoliti edifici, Gibellina nuova. Tutto qui però, anche la necessità di precisare “nuova”, sembra rievocare la vecchia. Non è passato molto da quel 15 gennaio 1968 in cui la terra tremò radendo al suolo la “vecchia” appunto, a una ventina di chilometri. Terremoto del Belìce, con l’accento sulla i, da quel momento pronunciato erroneamente Bèlice -così mi hanno raccontato gli abitanti- perché i media sbagliarono a reti unificate e da lì fu Bèlice per tutta Italia.

Subito si intraprese la ricostruzione di questa cittadina che conta oggi 4000 residenti ufficiali sulla carta ma effettivi a quanto pare appena 3000. Visitare Gibellina è un’esperienza un po’ surreale, sembra di stare in un non-luogo, un paradosso fatto di piazze e strade nate per accogliere tanta gente…ma senza gente. Fa caldo, le cicale spadroneggiano, si cerca ombra, agognata quanto rara, ai piedi degli strani monumenti sorti all’indomani del sisma. Pochissima gente in giro, strade larghissime che portano evidente la paura del terrremoto ma che inevitabilmente sottolineano il distanziamento fisico e quindi sociale degli abitanti, piazze enormi che ricordano quelle inabitate di De Chirico, spiazzanti appunto. Simmetrie, geometrie, giochi prospettici, ombre nette e luci accecanti. La sensazione che si ha percorrendole è proprio quella dimensione sospesa in cui qualcosa sembra dover accadere da un momento all’altro, immersi in un silenzio denso e pieno, come a lasciare che i luoghi si raccontino da soli.


All’indomani del sisma, il sindaco Ludovico Corrao (senatore assassinato circa dieci anni fa, ricordato dai suoi concittadini come una sorta di eroe) non perse tempo ad avviare la ricostruzione e, individuato il nuovo sito verso Salemi, fece un appello ad alcuni dei più prestigiosi nomi del panorama artistico italiano, intellettuali e artisti sulla cresta dell’onda e questi risposero: accolsero l’invito, tra gli altri, Leonardo Sciascia e Mimmo Rotella, Arnaldo Pomodoro e Mario Schifano, Pietro Consagra e Franco Angeli e chiaramente Alberto Burri col suo Cretto (ne ho scritto qui).


Monumenti isolati, non proprio semplicissimi da leggere, ma sicuramente di enorme suggestione, come la Chiesa Madre in cima alla collina con una gigantesca sfera incassata come perla in una conchiglia, tra le gradinate di un teatro. La piazza principale, quella col Municipio dietro i portici con le ceramiche di Carla Accardi, accoglie la “Città del sole” di Mimmo Rotella, e delle sculture di metallo bianco di un Edipo re, a ricordo delle Orestiadi (ne ho scritto qui). Anche la torre da cui dovevano sentirsi le “voci” della vecchia Gibellina oggi tace, emblematica di come questa cittadina dovesse letteralmente urlare ai quattro venti la sua voglia di ricostruzione e di come invece si sia zittita. Si resta un po’ perplessi a percorrere le vie, ampie, di questa città così come a osservare queste opere dalla dubbia e non semplice lettura.

Oggi la sensazione che si ha percorrendo le strade enormi e le piazze altrettanto larghe di Gibellina è di un’opera incompleta dove però l’incuria non si arresta. Così la sede del nuovo teatro, non finita e attraversata da due strade, il cui profilo oggi un po’ inquietante, quasi alieno, è stato ingentilito dalle foto dell’Images festival, uno degli appuntamenti più seguiti della zona. Oppure il Mac (Museo di Arte Contemporanea dedicato a Ludovico Corrao, che avrei volentieri visitato ma ho trovato chiuso di domenica, nonostante abbia riaperto appena qualche mese fa con un nuovo allestimento e il giorno di chiusura sia il lunedì) o il Mag (Meeting Art di Gibellina, chiuso anch’esso).


Gibellina vecchia è stata distrutta dal terremoto, Gibellina nuova sembra essere stata scossa da una potente scossa di ricostruzione con grandi progetti e nomi altisonanti e oggi però sembra essersi bloccata nel tempo, anzi in un non-tempo sospeso dove qualcosa sembra voler accadere da un momento all’altro. Non so quanto la pandemia abbia influito sui suoi ritmi sociali e non so ben descrivere cosa mi abbia lasciato questa strana città, non saprei banalmente dire se mi sia piaciuta… ma di certo non mi è non piaciuta. Un miscuglio di sensazioni diverse che spaziano dalla malinconia, al fascino suggestivo, all’ammirazione per chi, giovane, non la lascia e ci lavora, alla rabbia per tutti i non-finiti siciliani e al relativo spreco di risorse, ai crolli e ai sequestri, alla sensazione di pace che non è per forza rassegnazione ma a volte silenziosa accettazione coraggiosa. Attesa. Silenzio. Una sur-realtà che sicuramente non capita spesso di attraversare.
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