Francesco Merlo, Il sillabario dei malintesi

Una passeggiata in un’afosa serata d’agosto in Piazza Torre a Marina di Ragusa: bambini, gelati, musica e la placidità di una boccata d’aria dopo cena. Tutto normale eccetto in un angolo dove mercoledì sera era presente una delle più importanti penne dell’informazione italiana, il giornalista Francesco Merlo, alla presentazione del suo ultimo libro, Sillabario dei malintesi.

L’evento, organizzato dalla Libreria Ubik Terramatta e presentato da Michele Arezzo, ha quindi svelato il progetto, insolito quanto inedito, del libro ovvero raccontare l’Italia né con le date né con i luoghi ma con le parole.

Un giornalista è avvezzo a concatenarle ma stavolta se ne isolano solo alcune: è un elenco, un sillabario appunto, di termini che rispecchiano nell’immaginario collettivo una peculiarità tutta italiana, quella del malinteso, dell’ambiguità che i protagonisti e gli eventi della storia hanno incollato loro. “Le parole sono importanti”, diceva qualcuno, ma nel Bel Paese, la parola non è la parola, non inequivocabilmente comunque, non sempre, non esattamente, normalmente è un quasi e talvolta è perfino la non-parola, tutto e il contrario di tutto insomma. Gli Italiani lo sanno e ci sguazzano comodamente in questa equivocità.

Si parte con “monarchia”, il primo malinteso che Merlo ha scovato nella sua storia familiare e che ha poi riconosciuto nel paese del 1946: chi la votò la scelse per motivi propri, singolari e spesso in contrasto con quelli di altri che pur diedero la stessa preferenza. Qualcuno la votò per un motivo, qualcun altro per il motivo opposto. Da lì il giornalista ha poi snocciolato parte del sillabario passando, con una consequenzialità più istintiva che scientifica, di parola in parola, grani dello stesso rosario uniti dal filo del malinteso perché questa è l’Italia, il paese della “quasità”, del “sì ma anche no” che però è sempre più vicino al “no”.

“La storia d’Italia è la storia dei malintesi” ha spiegato, “le parole non somigliano alle cose che indicano e il malinteso è importante perché evita l’idea della vergogna e il giudizio spontaneo di condanna. L’ambivalenza, la mancanza di nettezza da un lato offendono ma soprattutto proteggono la realtà, che è spesso difficile da accettare”.

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Come una melodia al pianoforte scivola da un tasto all’altro, ognuno col suo specifico suono, una frase è un insieme di parole, ognuna con un suo preciso significato ma in Italia no, il suono non è mai netto, il significato mai univoco ma vaga da uno all’altro fino agli estremi.

Nel libro c’è monarchia, poi referendum, broglio, imbroglio e complotto (quello col fattore K, allogeno, del sotto-Stato e del mistero), c’è il sì che è anche no, c’è Italia-Francia, c’è il trasformismo, il comunismo, il celodurismo, l’unità e la tangente, la cretinocrazia e tanto altro.

C’è l’”a mia insaputa” di chi preferisce passare per fesso anziché colpevole, il “rompicoglioni” di Biagi che, per malinteso, da offesa divenne merito, ci sono i “numeri”, neanche quelli si salvano con le 13 mensilità pagate in un anno di 12 mesi, c’è il “milione”, la cifra iperbolica per antonomasia che sa di potenza, di “un’aritmetica non condivisa” come l’ha definita l’autore.

Tra un tasto e un altro dai suoni acquarellati si incastrano inevitabilmente però anche ritratti solidissimi di amici, più che maestri, che quella storia d’Italia l’hanno fatta e raccontata, come Eugenio Scalfari e Indro Montanelli riconosciuti, pur nella loro diversità, “custodi di una grammatica italiana che si sta perdendo”, in un’idea di giornalismo che ha a sua volta una storia che segue l’attualità, se lo stesso Merlo ammette di essere passato a parlare dalle “convergenze parallele” dei suoi inizi fino al “progetto politico del vaffa” dei giorni nostri. Il giornalismo -che non morirà mai- ha spiegato, è oggi una macchina che si sta guastando con i giornali, il prodotto va in crisi perché lo è la fabbrica, per cui dovrebbe adeguarsi ai tempi.

C’è stato quindi spazio anche per riflessioni sulla lingua, seppur senza alcun approccio etimologico ma come giornalismo e letteratura, arma difficile da maneggiare quest’ultima, spesso banalizzata a una bella scrittura ma che andrebbe ben distinta dal primo che ha invece le sue regole. Tanto l’uno aderisce alla realtà, tanto l’altra è invece “atto mancato”, sostitutiva di quella giustizia e di quella politica assenti nello scenario italiano.

Infine, la parola conclusiva di questo fiume increspato di parole che ha tenuto tutti in sospeso tra un sorriso complice e un ricordo amaro, un senso di appartenenza alla cultura del malinteso e all’ironia che ne sta dietro, alle contraddizioni e al relativismo, è stata –paradossalmente- silenzio. Non quello vuoto però, quanto piuttosto quello pieno di Manzoni, di Morricone, di De Gasperi, di Berlinguer, di Sciascia, dei pochi italiani che, parlando poco, hanno reso unico questo paese dei malintesi e dei “gabbiani ipotetici” di Gaber che ”oggi no. Domani, forse. Ma dopodomani, sicuramente” spiccheranno il volo.

Pubblicato su La Sicilia il 14/08/2017

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