San Giorgio è una chiesa particolare, bizzarra. Ha una facciata che ha inghiottito il campanile, è in cima a una piazza in salita e, come se non bastasse, si pone fuori asse a mostrare il fianco e la cupola. Quinta baroccamente teatrale, segue la scia romana di Bernini e Borromini nei suoi ultimi strascichi, quelli alleggeriti del XVIII secolo, e lo fa con un archistar del tempo, Rosario Gagliardi, uomo di pratica (mani sporche di cantiere) e di teoria (studia, sui libri, tanto).
Il Duomo di San Giorgio a Ragusa (occhio, Cattedrale è San Giovanni, acerrima rivale!) si staglia in cima alla grande piazza omonima al centro di Ibla, quel quartiere “basso” di posizione, ma tutt’altro che inferiore, che di fatto era tutta Ragusa fino alla catastrofe.
Ragusa occupava infatti l’attuale Ibla ma dopo il terremoto del 1693 quasi tutto va ricostruito e allora una fetta della popolazione sopravvissuta si sposta sull’altopiano accanto, spaccando urbanisticamente una società che era già divisa sul piano della fede. Se l’aristocrazia aveva sempre avuto come paladino il nobile cavaliere Giorgio, l’alta borghesia era protetta e devota a San Giovanni Battista. Delle due chiese madri però il terremoto lascia poco e, se ben presto San Giovanni risale il colle per fondare la nuova Ragusa, San Giorgio rimane giù ad accaparrarsi un posto strategico, fino ad allora occupato dal “collega” San Nicola, che il sisma aveva buttato giù.
Della vecchia chiesa di San Giorgio, il sisma paradossalmente risparmia l’ingresso, lo stardinario portale in stile gotico-catalano, e una parte della pala d’altare, la cosiddetta “Cona” di Antonino Gagini, in calcare locale, del 1573 (oggi conservata nella sagrestia della nuova San Giorgio). Come sempre all’indomani di una tragedia, la fede cresce ed è comprensibile come i Ragusani non fossero certo disposti a lasciare di punto in bianco quel luogo sacro. I lavori per la nuova chiesa iniziarono solo nel 1742 e proseguirono, seguendo il progetto di Gagliardi, fino al 1775.
La cupola però si aggiunse tardi, troppo in ritardo per quel gusto tardobarocco che la voleva ribassata: nel 1823 era ormai entrato a gamba tesa il neoclassicismo, che di lì a poco avrebbe avuto un ottimo contraltare nel Circolo di Conversazione ai piedi della piazza. Così, se è vero che la cupola ritardataria segue l’esempio di modelli europei come il Pantheon di Parigi, dando un tono leggero (sembra levitare, sospesa com’è su quelle sue vetrate blu) alla maestosità della facciata, lo è altrettanto che l’insieme appare omogeneo e ben articolato.
Piazza San Giorgio è teatro, la facciata è sipario e quinta scenografica, è un respiro che ne gonfia alcune parti e ne sgonfia altre (nell’alternanza concavo-convesso), è bicromia di calcare giallo (ma la luce a volte lo fa rosa) e nera pietra pece, materiali locali a ricordare – almeno a me, a Gagliardi non saprei- il sole e l’accoglienza che baciano questa terra e il duro lavoro che la impregna di petrolio. All’interno la stessa alternanza bianco-nera si arricchisce solo del rosso dei paramenti, rosso a ricordare la Passione e, se già da soli si vantano della maestria delle sartorie locali, introducono il telerio nella Settimana Santa (normalmente nascosto). Oltre a importanti opere d’arte, come le tele di Vito d’Anna e l’oreficeria, in parte esposta al Museo, mi piace soffermarmi su due “chicche”.
Che succede quando si hanno ottime maestranze ma non i materiali adatti? Le maestranze si ingegnano per far sembrare oro ciò che luccica! Tranne i due altari più importanti, quello maggiore e quello del Sacramento, tutti gli altri (neoclassici) sono degli autentici…falsi! Falsi d’autore però. I marmi scarseggiavano quindi gli abilissimi scalpellini usarono un materiale poverissimo, lo stucco, per creare una base da rivestire con vetri colorati in modo da dare la brillantezza del marmo! C’è da chiedersi cosa renda arte un oggetto, se il materiale o la manodopera, fatto sta che ancora oggi ingannano senza remore chiunque ci passi davanti.
Chiudo con un pezzo imponente, alla vista e all’udito: nel bel mezzo della chiesa difficile non notare l’organo, un Serassi (la ditta di Bergamo considerata la migliore in Italia) che superbamente si definisce “Organum Maximum”.
Effettivamente maximum è, con più di 3.000 canne il cui suono si propaga nella chiesa con altrettanto imponente solennità. Schiaccia anche lui l’occhio al neoclassicismo, quasi a solleticare, con tutte quelle canne, la cupola blu poco distante ma come lei, si integra benissimo in questo scrigno tardobarocco che racchiude però anche il Rinascimento, con la “Cona” del Gagini, il folclore senza età misto alla devozione con i reliquiari e le suppellettili, al delicato neoclassicismo che si impiglia negli stalli lignei rococò fino alle vetrate anni Venti dedicate alla vita di San Giorgio, in cui ogni famiglia gentilizia di Ibla ha apposto il suo stemma.
L’11 gennaio l’Organum Maximum suona il “registro terremoto” a ricordare una particolare cerimonia: i sacerdoti, seduti sui loro meravigliosi scranni lignei, si mettevano a battere freneticamente i piedi in modo da riprodurre il rumore del terremoto. La chiesa di San Giorgio ricorda la tragedia del 1693, quella che ha ferito per sempre questa terra ma che ha inconsapevolmente dato vita a una ricostruzione, grandiosa, teatrale, barocca.